Suvvia, ditemi voi se Germania-Corea del Sud non è stata un inno al calcio, all’unico sport che, giocandosi con i piedi, può trasformare un assedio in qualcosa di clamorosamente corretto? Nel basket, che si gioca con le mani e non contempla i portieri, i tedeschi avrebbero vinto, come minimo, di venti punti. Invece: Corea del Sud due, Germania zero.
E vai, allora, con la retorica che nel destino dei Grandi c’è sempre una Corea, da Middlesbrough a Kazan; con l’elogio dei «ridolini» (?) che, pur eliminati, hanno dato tutto difendendo ogni sentiero come se fosse questione di vita o di morte (e invece era solo questione di orgoglio). Tra parentesi, in un Mondiale che sta sancendo la crisi del ruolo, la Corea ha dimostrato di aver un signor portiere, l’allampanato Jo.
E la Germania? Avevamo appena finito di celebrarne la volontà feroce che l’aveva spinta, tra meriti e puntini puntini, oltre la Svezia. «I tedeschi non muoiono mai» è uno slogan che ha fatto storia. E con un ricco dossier a supporto. Questa volta non sono morti: sono scoppiati. Gli avversari correvano, loro camminavano. E senza centravanti, hai voglia di raccogliere le briciole che la cronaca, distratta, può lasciarti. I gol di Kim e Son (con Neuer lontano lontano) sono piombati alla fine dell’agonia, quando la larga vittoria della Svezia (sì, la Svezia senza Ibrahimovic) li stava spingendo alla spasmodica caccia di un gol qualsiasi.
Adesso, naturalmente, il modello tedesco sarà schiaffeggiato e irriso, esautorato e vilipeso. Difficile salvarne qualcuno, facile esecrarli tutti: il lento Khedira, lo sterile Ozil, l’impreciso Kroos (proprio lui, l’angelo salvatore), il grezzo Gomez, l’inutile Muller, il panoramico Reus. Mai successo che la Germania uscisse al primo turno di un Mondiale. Ci sarebbe voluta una goccia di Messi, almeno. Da tedeschi, sono usciti tutti insieme.